- Massimo De Marco
La mia infanzia: giornate interminabili trascorse nella ruga dei “Caldarotti” a Motta, ascoltando sempre le solite storie e i soliti aneddoti e giocando con il pallone nel “Suppuortu dei Facenna” che ricopre, ancora oggi, una stradina quasi ad angolo retto.
Dopo pochi anni che mi esercitavo ero diventato così bravo, a calcio, da riuscire, con un solo tiro a far passare la palla da una parte all’altra del suppuortu (roba da Maradona, neanche Pelé sarebbe stato capace di tanto).
- Massimo De Marco
La frazione di Motta è stata costruita secondo logiche medioevali: il potere ecclesiastico in alto (Chiesa di San Maria e casa del “Pastore degli Arnedos”) e il potere politico in basso (palazzi Arnedos).
La ruga dei Caldarotti (da rue, via in francese) è una delle prime stradine realizzate in paese, ma la sua importanza storica è legata prevalentemente al fatto che si trova a una quota più alta rispetto al resto del paese e anche perché è l’unica area della Presila che si può osservare affacciandosi dai giardini del Palazzo del Governo di Cosenza (ove spesso venivano allocati i militari aragonesi/borbonici).
Pertanto, un possibile e anche privilegiato fuoco abitativo osservabile da Cosenza.
Si racconta che il nome della ruga sia legato:
- Massimo De Marco
La chiesa di San Nicola di Motta per molti anni è stata infiocchettata musicalmente dalle note celestiali di un bellissimo organo a pedaliera/canne che era stato regalato alla chiesa di Motta dal prete degli Arnedos. Lo strumento, posizionato sulla balconata all’ingresso del luogo di culto, veniva utilizzato prevalentemente durante il periodo dell’Avvento (dal giorno di San Martino sino al giorno della nascita di Cristo).
Era consuetudine che ad accarezzare la tastiera dell’organo venisse chiamata sempre una giovane, distinta e dalle mani eleganti, donna mottese. Lo strumento infatti era considerato una reliquia, difficile da toccare.
- Massimo De Marco
Donne che praticavano un rituale contro il malocchio. Ricordo ancora il momento dello sfascino che ritualmente svolgeva mia nonna (Mamma Rosina) con tanta grazia ed eleganza. Avevo un po’ più di 5 anni quando di nascosto sotto il letto di mia nonna assistetti, per la prima volta e per curiosità, al rito dello sfascino.
Mia Nonna, vestita con l’abito delle feste e con in testa un fazzoletto nero, stava davanti a una bacinella di rame lucente riempita con acqua e olio.
- Massimo De Marco
Tra i dodici e i quattordici anni molti adolescenti vivono in un fase nella quale i sogni sono più importanti della realtà, in una fase nella quale, almeno qualche notte alla settimana, sognano di diventare come il loro eroe e di copiarne le gesta.
Anch’io ho vissuto quei momenti gioviali di scelta del personaggio da emulare e ne ho certamente un buon ricordo personale, anche se spesso la mia scelta non veniva capita e mi creava problemi con i coetanei.
- Massimo De Marco
È consuetudine umana attendere e godersi il momento del sorgere del sole ed è normale svegliarsi, soprattutto in vacanza, un po’ prima dell’alba per immortalare con gli occhi l’impatto della luce solare su tutto ciò che ci circonda.
Nicola, invece attendeva la luna! Un ragazzino, carino, minuto e con gli occhi grandi e svegli, che viveva con la mamma in un misero loculo in piazza Santa Maria.
Il ragazzo amava aspettare la luna, amava, come le definiva lui da grande, godersi le sue istantanee. Nicola, che conobbe suo papà solo in età avanzata (il genitore non volle mai riconoscerne la paternità), era uno dei tanti frutti della farsa del “monachiello” (scena teatrale che serviva a coprire una nascita fuori dal matrimonio). Figlio di una donna rovitese, che aveva avuto la sfortuna di essere disonorata sia dal suo uomo, sia dalla sua famiglia, fu costretto a vivere gran parte della sua infanzia nella totale povertà.
- Massimo De Marco
A Motta, fino alla metà del secolo scorso le attività più presenti erano le attività commerciali ove era possibile ristorarsi (le cantine).
Sparse per tutto il paese, ricevevano giornalmente numerosissimi avventori.
Gli uomini mottesi (alle donne era spesso vietato l’ingresso), alla sera e alla fine dei lavori nei campi, facevano tappa, prima di recarsi a casa, nella loro cantina preferita.
- Massimo De Marco
Un giorno alla fine del 1800, nella Cantina del “Suppuortu” (la storia è vera, mentre i nomi dei personaggi, in alcuni casi, sono inventati). I nipoti di Peppino (imprenditori e proprietari della forgia di Santa Maria), avevano un problema di eredità, difficoltà che li aveva portati più volte a litigare, anche in maniera violenta.
I due fratelli (Domenico e Alfredo) avevano ricevuto in eredità il terreno di famiglia, un magnifico uliveto a Rianico e non sapevano come dividerselo, perché il versante dove erano ubicati le “sarme o tummini” di terreno poteva essere suddiviso, per motivi morfologici, solo in un modo: la parte orograficamente più in alto, che era caratterizzata da alberi giovani ed era raggiungibile con strada percorribile anche da un carro trainato da un asino e la parte orograficamente più in bassa, con alberi secolari, che poteva essere raggiunta con strada percorribile solo da asino.
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