Tra le personalità a cui ha dato i natali Rovito c’è sicuramente Tommaso Cornelio, medico, matematico e filosofo, nato nel 1614 e protagonista della rivoluzione scientifica del secolo XVII nel Regno di Napoli.
Poco si conosce della sua famiglia e della sua infanzia. Di certo si sa che ricevette dai Padri Gesuiti una formazione prevalentemente letteraria.
Solo più tardi, poté dedicarsi a studi di carattere scientifico, prima a Napoli e poi a Roma, dove ebbe modo di entrare in contatto con vari discepoli di Galileo, tra i quali Evangelista Torricelli.
Rientrato a Napoli, dopo aver soggiornato a Firenze e a Bologna, gli venne assegnata la cattedra di matematica dell'ateneo cittadino. In seguito otterrà anche gli insegnamenti di medicina e di astronomia.
Cornelio fu il protagonista, insieme a Leonardo Di Capua e ai fratelli Gennaro e Francesco D'Andrea, dell'esperienza di profondo rinnovamento culturale promosso, tra il 1663 e il 1670, dall'Accademia degli Investiganti. Spettò infatti proprio a lui, secondo molteplici testimonianze, il merito di aver fatto "venire in Napoli le opere di Renato delle Carte" (CARTESIO) e di averne insegnato per primo pubblicamente la filosofia a partire dal 1649.
Nel 1663 uscì il suo capolavoro, i sette dialoghi dei Progymnasmata physica.
In essi il debito contratto con l'insegnamento di Cartesio appariva evidente, ben oltre la ripresa del quadro meccanicistico generale, nella sottoscrizione della teoria dei vortici e della fisiologia animale. Una grande consuetudine con il naturalismo meridionale, in particolare con le opere di Telesio, Bruno, Campanella; la forte presenza della lezione galileiana, che precedeva l'incontro con la filosofia cartesiana; l'atomismo reintrodotto da Gassendi; la chimica di Boyle; sono questi solo alcuni degli ingredienti che animavano lo sfondo del quadro meccanicista tratteggiato dal filosofo calabrese.
Cornelio morì a Napoli a 70 anni, il 24 novembre 1684, ma il suo funerale ufficiale si svolse solo nella primavera dell'anno successivo.
La cerimonia, sapientemente organizzata da Francesco D'Andrea e Giuseppe Valletta, divenne l'occasione per riorganizzare, di fronte agli attacchi dei Gesuiti, le schiere di tutti gli spiriti progressisti napoletani, che avevano individuato nella difesa della filosofia atomista il simbolo stesso della battaglia per il progresso culturale e civile. Il corpo di Tommaso Cornelio fu tumulato nella Basilica di Santa Maria degli Angeli di Pizzofalcone a Napoli dove ancora giace, la stessa dove vennero celebrati i funerali.
La morte di Cornelio, il massimo rappresentante degli Investiganti, fu per i tradizionalisti un’ottima occasione per sferrare un attacco in grande stile. Poiché Cornelio era stato accusato di ateismo e attaccato soprattutto dai Gesuiti, il D’Andrea riuscì a far pronunciare l’orazione funebre a don Luca Rinaldi, canonico della cattedrale di Capua, un gesuita noto per le sue simpatie verso le teorie corpuscolari e il galileismo.
Il funerale ricalcò il modello di quelli riservati esclusivamente ai nobili. La chiesa fu ricoperta di «composizioni bellissime» in varie lingue; la castellana «fu ricchissima d’argenti», fatti giungere da tutte le chiese della città; il pubblico fu quello delle grandi occasioni: vi partecipò «tutta la nobiltà, la maggior parte de’ ministri», i vari ordini religiosi, e perfino sedici Gesuiti.
Fu una grande vittoria per D’Andrea, che considerò l’organizzazione del funerale dell’amico il gesto che gli aveva procurato «maggiore soddisfazione» nella vita: «[…] per gli applausi che mi furon fatti – scriveva al principe Doria sempre il 17 luglio 1685 – fu per me uno specie di trionfo e ne ricevei le congratulazioni di tutti i letterati à quali ne diedi parte per l’Italia».
La vittoria di D’Andrea non pose comunque fine agli attacchi a Cornelio. Evidentemente il cosentino da morto continuava a fare paura come da vivo.
Sei anni dopo la sua scomparsa, nel pieno del “processo agli ateisti”, Giovan Battista Ferace di Monte Ercole si presentò in Curia spontaneamente come testimone per scagionare Cornelio dalle solite accuse: di non credere, cioè, nell’immortalità dell’anima e nelle pene dell’Inferno.
Viceversa, nel 1692, Felice Pisano aveva accusato il matematico Giacinto De Cristofaro e il poeta Basilio Giannelli, due giovani seguaci degli Investiganti, di aver fatto parte della «setta nova» e che, colpa gravissima, «havevano praticato con Tomase Cornelio».
Gli attacchi a Cornelio e alla cultura dei novatori, accusati, senza andare troppo per il sottile, di essere ateisti, libertini e persone di facili costumi, non ebbero gli effetti sperati. Il “processo agli ateisti” si chiuse, infatti, con la sconfitta dei Gesuiti e dei nemici degli Investiganti. Il loro massimo esponente, il gesuita Giovanni Battista De Benedictis, detto Aletino, nel 1696 fu costretto a lasciare il Regno.
Con tutto ciò, in quello stesso anno, la domenica 4 marzo, in concomitanza con la processione delle Quarant’ore, un domenicano, «predicando con fervore e zelo» in Largo di Castello, prese il Crocifisso in mano e, rivolgendolo verso i presenti, minacciò Napoli di gravissimi castighi, perché affermava, irato e sgomento, che in città vivevano indisturbati «venticinquemila eretici».
Intanto, oltre a Cornelio era morto nel 1695 anche Leonardo Di Capua. Tre anni dopo morirà, in totale solitudine, anche Francesco d’Andrea. Con la loro scomparsa si chiudeva definitivamente un’epoca: la stagione degli Investiganti, che con le loro opere e il loro pensiero avevano portata Napoli e la cultura napoletana al centro della ribalta italiana ed europea.