Uno dei fenomeni fortemente negativi che, dopo l’Unità d’Italia, caratterizzarono il Mezzogiorno e la Calabria, fu sicuramente il Brigantaggio.
Spentasi l’euforia dell’impresa dei Mille e quella suscitata dai plebisciti, attraverso i quali la stragrande maggioranza dei calabresi, compresi i rovitesi, aveva manifestato il desiderio di far parte dello Stato italiano, riemergevano i vecchi problemi ai quali si sovrapponevano quelli nuovi, nati dal confronto con le regioni più progredite del resto d’Italia. Il nodo più difficile da sciogliere era rappresentato dalla necessità di subordinare i problemi locali a quelli generali dell’Italia.
Fino al 1860, i calabresi avevano tenuto come punto di riferimento una capitale, Napoli, che quasi nulla aveva chiesto e alla quale in verità poco era stato dato dalle estreme periferie del Regno.
Conseguita l’Unità, i calabresi venivano, quindi, chiamati a rendersi partecipi di questioni generali (completamento dell’unità nazionale, rapporti con la Chiesa, alleanze con gli Stati europei, ecc.) che, in effetti, nulla sembrava avessero in comune con i numerosi problemi locali rimasti uguali a prima, anzi peggiorati a causa dalle nuove leggi che prevedevano, tra l’altro, un sistema fiscale più moderno, più organico e rigoroso ed il servizio di leva come doverosa partecipazione di tutti gli italiani alla difesa della patria comune.
Tra i numerosi problemi che il Governo dovette immediatamente affrontare, relativamente alla crisi che investiva il Mezzogiorno e, soprattutto, la Calabria, vi furono quelli del brigantaggio, quelle delle conseguenze economiche derivanti dall’applicazione della legge sul macinato e, infine, quelle dell’eterna questione dei boschi della Sila.
All’inizio del 1861 il brigantaggio si manifestò nelle forme endemiche di furti, ricatti, vendette personali, atti vandalici contro le colture e il bestiame. Poi cominciarono ad apparire le prime bande guidate da capi decisi, abili e spietati che rappresentavano un preoccupante superamento della fase iniziale del fenomeno che negli anni immediatamente precedenti l’Unità era stato caratterizzato dall’azione di fuorilegge isolati.
Le bande crescevano, di giorno in giorno, in numero e aggressività, ed arrivarono ad attaccare anche i borghi rurali e, in qualche caso, anche i centri importanti. Durante tali aggressioni, venivano uccisi liberali, sindaci, ufficiali della guardia nazionale, nonché, distrutti gli archivi comunali e liberati i detenuti fino a quando lo Stato Centrale non decise di intervenire pesantemente con l’approvazione della legge Pica, che prevedeva lo stato d’assedio e delle conseguenti norme legislative che di fatto sospendevano le garanzie costituzionali.
Tra il 1861 e il 1862, furono eliminati in Calabria circa 1.560 briganti (1.023 nella provincia di Catanzaro, 306 in quella di Cosenza e 234 in quella di Reggio Calabria). Tuttavia, nonostante le leggi eccezionali, il biennio 1863-64 segnò una recrudescenza del fenomeno che proprio in quegli anni, da elemento “politico”, dato l’appoggio che esso aveva ricevuto dai Borboni, si trasformava in vero e proprio dramma socio-economico. Le estorsioni divennero più frequenti e non risparmiarono più neanche i grandi proprietari terrieri.
Ciò procurava ai briganti l’appoggio dei contadini. In un ambiente come quello calabrese, i solidi legami materiali e morali tra i contadini (a parte l’antico mito ancora persistente del brigante difensore dei deboli) rendevano, ancora più difficile, l’opera di repressione, in un contesto che mal sopportava la presenza di uno Stato che, fino ad allora, si era mostrato, quasi soltanto, sotto l’aspetto repressivo.
Del resto, molti briganti erano coraggiosi e astuti e sapevano accattivarsi le simpatie dei diseredati, abituati da sempre a farsi giustizia da sé, date le note deficienze dei governanti del passato.
Celebre in Presila fu la banda di Pietro Monaco, nativo di Macchia, frazione di Spezzano Piccolo, "tarchiato della persona, bruno di volto e di pelo, con occhi fieri e incavati che ispiravano diffidenza ed orrore, ex soldato borbonico e poi volontario dell’esercito meridionale garibaldino che si trovò brigante per un sopruso subito e precisamente perché doveva ritornare a fare il soldato di leva dopo averne fatto già sette anni.
Dopo avere cercato di uccidere colui che aveva carpito la buona fede del padre, Pietro Monaco si diede alla macchia e insieme alla moglie, Maria o Marianna Oliverio, originaria di Casole Bruzio, batté la Sila e i paesi silani compiendo stragi soprattutto contro i ricchi e i potenti. Tradito da un compare di Serra ferito, ordinò alla moglie di tagliargli la testa e portarsela via per non farne oggetto di ludibrio.
La consorte così fece e, dato fuoco alla capanna, riuscì a sfuggire ai soldati, ma dopo poco tempo venne catturata e finì i suoi giorni in carcere.
A Maria o Marianna, detta Ciccilla, venne attribuito un altro crimine assai efferato, quello di sua sorella Teresa. Un giorno si accorse che il marito, durante i periodi che trascorreva in casa, guardava con particolare interesse Teresa.
Non ebbe molto a rifletterci e, atteso il momento più opportuno, la uccise per gelosia con quarantotto colpi di scure, come lei stessa ebbe poi a confessare.
Arrestata dai piemontesi dopo essere stata tradita da un brigante che rivelò il suo nascondiglio, venne condannata a morte, ma la pena le venne commutata nei lavori forzati a vita. Forse morì nel carcere-fortezza di Fenestrelle, vicino Torino, alcuni anni dopo.
Ciccilla fu la brigantessa più celebre di tutto il Mezzogiorno d’Italia e di lei scrisse anche Alessandro Dumas. Nel 2010, edito da Pellegrini Editore, è stato pubblicato un pregevole libro di Peppino Curcio, intitolato “Ciccilla. la storia della brigantessa Maria Oliverio, del brigante Pietro Monaco”.
Nel narrare i fatti della vita di Ciccilla, Curcio oltre che alle carte del processo, si rifà anche alla tradizione orale. Il libro si chiude con un’appendice che riporta dodici articoli del giornale “L’indipendente”, diretto da Alessandro Dumas, e da sette capitoli biografici su Pietro Monaco e sua moglie Maria Oliverio, sempre del Dumas.
In una foto scattata nel carcere di Montalto Uffugo Ciccilla appare vestita da uomo, alla brigantesca, col classico cappello a pan di zucchero, il due botte (doppietta), un revolver alla cintura e un braccio al collo, conseguenza di una ferita.
Uno dei più stretti collaboratori di Pietro Monaco e Ciccilla fu Michele Porco di Rovito, bracciante agricolo, che partecipò in combutta con i due all’aggressione della famiglia Gullo il 12 agosto 1862, in cui fu ferito Ludovico Leonetti, carbonaro della prima ora e anziano suocero del Notaio Alfonso Gullo.
Pare che, oltre alle bande di Antonio e Giovanni Salerno di Flavetto attive sul territorio rovitese intorno al 1827, l’unico vero brigante del luogo, spregiudicato e sanguinario, sia stato Francesco Reda, di Motta, inizialmente componente della banda di Raffaele Arnone da Spezzano della Sila, da cui in seguito si separò.
Morì giovanissimo il 27 marzo 1850, colpito a morte da una fucilata di un guardiano del barone Barracco. Nell’agosto di quello stesso anno, in uno scontro a fuoco con la banda di Raffaele Arnone, perse la vita un altro giovane rovitese, Francesco Lappano, appartenente ad un reparto di soldati specializzati nella ricerca e nella cattura di briganti.
Nel 1861, dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia, anche a Rovito fu costituita la Guardia Nazionale, composta da 186 uomini che avevano il compito di dare la caccia ai briganti.
Nel gennaio del 1869 un drappello della Guardia Nazionale di Rovito composto dal capitano Giuseppe Atella, dal sergente Giovanni Aragona e dai militi Pasquale Atella e Raffaele Ripoli, dopo uno scontro a fuoco avvenuto nei pressi di Rovito Sottano, uccise il brigante Giovanni Donato, che era nato a Rovito il 14 dicembre 1934 da Francesco (bracciante agricolo) e Maddalena Vetere (contadina).