La frazione di Motta è stata costruita secondo logiche medioevali: il potere ecclesiastico in alto (Chiesa di San Maria e casa del “Pastore degli Arnedos”) e il potere politico in basso (palazzi Arnedos).
La ruga dei Caldarotti (da rue, via in francese) è una delle prime stradine realizzate in paese, ma la sua importanza storica è legata prevalentemente al fatto che si trova a una quota più alta rispetto al resto del paese e anche perché è l’unica area della Presila che si può osservare affacciandosi dai giardini del Palazzo del Governo di Cosenza (ove spesso venivano allocati i militari aragonesi/borbonici).
Pertanto, un possibile e anche privilegiato fuoco abitativo osservabile da Cosenza.
Si racconta che il nome della ruga sia legato:
La chiesa di San Nicola di Motta per molti anni è stata infiocchettata musicalmente dalle note celestiali di un bellissimo organo a pedaliera/canne che era stato regalato alla chiesa di Motta dal prete degli Arnedos. Lo strumento, posizionato sulla balconata all’ingresso del luogo di culto, veniva utilizzato prevalentemente durante il periodo dell’Avvento (dal giorno di San Martino sino al giorno della nascita di Cristo).
Era consuetudine che ad accarezzare la tastiera dell’organo venisse chiamata sempre una giovane, distinta e dalle mani eleganti, donna mottese. Lo strumento infatti era considerato una reliquia, difficile da toccare.
La mia infanzia: giornate interminabili trascorse nella ruga dei “Caldarotti” a Motta, ascoltando sempre le solite storie e i soliti aneddoti e giocando con il pallone nel “Suppuortu dei Facenna” che ricopre, ancora oggi, una stradina quasi ad angolo retto.
Dopo pochi anni che mi esercitavo ero diventato così bravo, a calcio, da riuscire, con un solo tiro a far passare la palla da una parte all’altra del suppuortu (roba da Maradona, neanche Pelé sarebbe stato capace di tanto).
Donne che praticavano un rituale contro il malocchio. Ricordo ancora il momento dello sfascino che ritualmente svolgeva mia nonna (Mamma Rosina) con tanta grazia ed eleganza. Avevo un po’ più di 5 anni quando di nascosto sotto il letto di mia nonna assistetti, per la prima volta e per curiosità, al rito dello sfascino.
Mia Nonna, vestita con l’abito delle feste e con in testa un fazzoletto nero, stava davanti a una bacinella di rame lucente riempita con acqua e olio.
Tra i dodici e i quattordici anni molti adolescenti vivono in un fase nella quale i sogni sono più importanti della realtà, in una fase nella quale, almeno qualche notte alla settimana, sognano di diventare come il loro eroe e di copiarne le gesta.
Anch’io ho vissuto quei momenti gioviali di scelta del personaggio da emulare e ne ho certamente un buon ricordo personale, anche se spesso la mia scelta non veniva capita e mi creava problemi con i coetanei.
È consuetudine umana attendere e godersi il momento del sorgere del sole ed è normale svegliarsi, soprattutto in vacanza, un po’ prima dell’alba per immortalare con gli occhi l’impatto della luce solare su tutto ciò che ci circonda.
Nicola, invece attendeva la luna! Un ragazzino, carino, minuto e con gli occhi grandi e svegli, che viveva con la mamma in un misero loculo in piazza Santa Maria.
Il ragazzo amava aspettare la luna, amava, come le definiva lui da grande, godersi le sue istantanee. Nicola, che conobbe suo papà solo in età avanzata (il genitore non volle mai riconoscerne la paternità), era uno dei tanti frutti della farsa del “monachiello” (scena teatrale che serviva a coprire una nascita fuori dal matrimonio). Figlio di una donna rovitese, che aveva avuto la sfortuna di essere disonorata sia dal suo uomo, sia dalla sua famiglia, fu costretto a vivere gran parte della sua infanzia nella totale povertà.
A Motta, fino alla metà del secolo scorso le attività più presenti erano le attività commerciali ove era possibile ristorarsi (le cantine).
Sparse per tutto il paese, ricevevano giornalmente numerosissimi avventori.
Gli uomini mottesi (alle donne era spesso vietato l’ingresso), alla sera e alla fine dei lavori nei campi, facevano tappa, prima di recarsi a casa, nella loro cantina preferita.
Un giorno alla fine del 1800, nella Cantina del “Suppuortu” (la storia è vera, mentre i nomi dei personaggi, in alcuni casi, sono inventati). I nipoti di Peppino (imprenditori e proprietari della forgia di Santa Maria), avevano un problema di eredità, difficoltà che li aveva portati più volte a litigare, anche in maniera violenta.
I due fratelli (Domenico e Alfredo) avevano ricevuto in eredità il terreno di famiglia, un magnifico uliveto a Rianico e non sapevano come dividerselo, perché il versante dove erano ubicati le “sarme o tummini” di terreno poteva essere suddiviso, per motivi morfologici, solo in un modo: la parte orograficamente più in alto, che era caratterizzata da alberi giovani ed era raggiungibile con strada percorribile anche da un carro trainato da un asino e la parte orograficamente più in bassa, con alberi secolari, che poteva essere raggiunta con strada percorribile solo da asino.
Sta per imbrunire: toc, toc, toc…, I Caldarotti stanno per svuotarsi, le donne rientrano nelle case per preparare la cena, mentre gli uomini si apprestano a organizzare frettolosamente le attrezzature da utilizzare l’indomani per il lavoro.
Le genti si salutano nella speranza che Santa Maria possa consentire loro di vivere un domani migliore e nel mentre le tenue lampade del quartiere iniziano ad accendersi. Gli odori delle pietanze che fuoriescono dalle case si mescolano e si confondono con l’aiuto della brezza serale.
Ecco la frase che chiudeva sempre la scena: “Rosì, chi pripari stasira? Dua ova!”. Da quel momento in poi gli unici rumori che si sentivano nei Caldarotti era il chiacchiericcio che proveniva dalle case e il lento passo di una persona che risaliva il quartiere per recarsi a pregare nell’area ove un giorno era ubicata la chiesa di San Rocco.
Lo faceva tutte le sere prima di addormentarsi. Donna non molto alta, vestiva sempre con gli stessi abiti trasandati: gonna, camicia, gilet e scialle in tinta nera. In testa portava un fazzoletto nero strappato in più parti, mentre ai piedi aveva incessantemente ciabatte con tacco di legno.
Le donne e gli uomini mottesi sono tutti indaffarati perché già domani è il primo sabato di settembre, giorno strategicamente importante per le famiglie del nostro paese.
Entro la giornata di sabato vanno definite e concluse tutte le attività preparatorie per il giorno di San Rocco.
In quel giorno le donne avevano il compito di pulire casa (neanche per Natale le pulizie erano così minuziose) e a iniziare a preparare il pranzo di domenica, mentre gli uomini avevano la mansione di approvvigionare il cibo.
Durante la giornata di sabato l’aria in paese è veramente magica, tutti sorridono e tutti sono pronti a dare una mano per la buona riuscita della festa.
I ragazzini, travolti dalla felicità presente in paese, sembrano anche loro impazziti: corrono e schiamazzano senza nessun freno inibitorio.
Una delle pratiche produttive più diffuse a Motta era l’allevamento del baco da seta.
Pratica che veniva prevalentemente realizzata nelle campagne, ma anche in alcuni sotto tetti del paese.
“U Cucullaru”, come veniva chiamato il luogo dove venivano allevati i bachi, necessitava comunque di luoghi caldi e ben esposti al sole e soprattutto di luoghi dove vi era la possibilità di approvvigionare l’elemento nutritivo per il baco, le foglie di gelso.
La famiglia più accreditata per l’allevamento del baco da seta a Motta era quella dei “Vallanu” (diverse generazioni dei “Vallanu” si erano tramandate in più secoli le loro giuste conoscenze su questo tipo di attività).
Una delle pratiche produttive più diffuse a Motta era l’allevamento del baco da seta. Pratica che veniva prevalentemente realizzata nelle campagne, ma anche in alcuni sotto tetti del paese.
“U Cucullaru”, come veniva chiamato il luogo dove venivano allevati i bachi, necessitava comunque di luoghi caldi e ben esposti al sole e soprattutto di luoghi dove vi era la possibilità di approvvigionare l’elemento nutritivo per il baco, le foglie di gelso.
La famiglia più accreditata per l’allevamento del baco da seta a Motta era quella dei “Vallanu” (diverse generazioni dei “Vallanu” si erano tramandate in più secoli le loro giuste conoscenze su questo tipo di attività).
Stanuzzu (Stanislao) ha sempre insegnato ai suoi amici e parenti che “Bisogna sempre avere rispetto dei luoghi di culto e Dio deve essere amato e rispettato”. Il tiepido sole primaverile si sta nascondendo dietro le montagne che ci separano dal mare.
La “toccara” (Raganella calabrese incassata e a più ruote) ha iniziato a suonare all’ingresso della Chiesa di San Nicola.
La musica emanata dallo strumento riecheggia tra le stradine del paese per ricordare il periodo della Quaresima.
La “toccara” in questo periodo sostituisce le campane delle Chiese per rispettare la morte di Gesù. Mentre le campane in questo periodo vengono legate.
Le donne coperte da lunghi scialli neri, che ricoprono la testa e le spalle, iniziano ad abbandonare le case per recarsi a seguire le omelie della passione di Gesù.
Motta è seduta su un basamento roccioso di origine metamorfica, molto rigido e superficialmente friabile.
Una roccia che, in passato, poteva essere scavata solo in corrispondenza delle linee di clivaggio.
Eppure Motta un tempo era attraversata da un passaggio sotterraneo che la tagliava da nord a sud.
Questo passaggio, realizzato intorno al 1600 partiva dall’area delle vasche (lavatoio) e terminava nei pressi della “Cavarella dei Guarnieri”, oggi sede dell’acquedotto di Pianette.
Le ultime tracce di questa “importante” via di comunicazione per l’abitato di Motta furono distrutte durante i lavori di quella che oggi chiamano circumvallazione.
Durante il periodo invernale, tra ottobre e febbraio, alla porta di ingresso “du trappito e Salvature” era sempre leggibile (su foglio bianco e con una scrittura delicata), la seguente comunicazione: Il frantoio è utilizzabile:
- Novembre e dicembre solo per il proprietario del frantoio;
- Gennaio per i Notabili del paese;;
- Febbraio per tutti gli altri cittadini, tranne nei giorni in cui l’asino è malato.
(Salvature non era capace né di leggere né di scrivere)
La Sagra agli Arnedos è stata creata insieme a un gruppo di amici per valorizzare l’abitato di Motta: la “Baliva di Motta” è stata una delle più importanti “Torri di Guardia terrestri” per la città di Cosenza.
I fondatori dell’abitato di Motta scelsero quei luoghi, perché avevano tutte le caratteristiche morfologiche di una “Motta castrale” (fortificazione costituita su un terrapieno spesso a forma trapezoidale) e perché da quella collina era possibile comunicare facilmente con gli abitati di Cosenza e Celico (antichi centri nevralgici del potere per la presila).
Il 19 giugno 1955, sotto un caldo sole, la scala della chiesa di Santa Maria era stracolma di persone. Il popolo maschile attendeva con ansia e trepidazione di ascoltare via radio le notizie che sarebbero arrivate da città lontane.
Notizie che avrebbero potuto mutare completamente l’umore delle persone presenti nella piazza. Dopo un po’ il radiocronista, tra le tante notizie, annuncia la vittoria della squadra di Nordahl e nomina più volte il numero 27.
Il ragazzino proprietario della radio impazzisce di gioia: inizia a saltare e ad abbracciare tutti.
Anni dopo - America del Nord – si racconta che, di notte, lo stesso proprietario della radio di piazza Santa Maria, per futili motivi, veniva violentemente picchiato e ridotto quasi in fin di vita.
La mamma di Nordahl, così veniva chiamato il ragazzo, aveva venduto quasi tutti i suoi beni pur di offrire una vita migliore ai suoi figli, senza aver fatto però i conti, in questo caso, con la dea bendata. Anni settanta - Motta.
A Motta, come in altri centri del sud Italia, la tradizione dei “tubbarini militari” si è sviluppata non solo per accompagnare le immagini lignee dei nostri Santi in giro per i paesi, ma anche per divulgare informazioni locali.
Nei secoli scorsi, senza gli attuali mezzi informatici, i signorotti locali, per comunicare ai loro concittadini quello che accadeva nei loro piccoli “regni”, utilizzavano gli uomini che lanciavano “u bannu” (il banditore - uomo dalla voce chiara, dura e concisa) accompagnato dai “tamburi militari”.
Notoriamente il gruppo banditore era composto da un responsabile (persona in grado anche di leggere e scrivere e nominato dal signorotto), da due o quattro tamburi e da una grancassa.
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