Rovito, Ruvitu in calabrese, deriva dal latino “Rubetum”: Roveto e significa: luogo ricco di rovi.
E’ situato a 747 metri sul livello del mare ed è uno dei Casali di Cosenza con circa 3200 abitanti chiamati Rovitesi.
Il paese è servito dalla superstrada "Paola - Crotone" che congiunge i mari Ionio e Tirreno facilmente raggiungibili in pochissimo tempo.
Dista dieci chilometri da Cosenza e pochissimi chilometri lo separano dall'altopiano della Sila (1500 m s.l.m.).
A chi decide di visitarlo offre di scoprire e ammirare tre borghi antichi (Rovito Centro, Motta e Flavetto) e le sue frazioni: Pianette, Bosco, Cavallo Morto, Episcopani, Pilastri, Travale e Rianico. Le sue colline offrono da secoli una varietà arborea tipica della macchia mediterranea, che va dagli alberi di fichi, ai vigneti, agli antichi uliveti, fino al bosco di castagni e querce.
Particolarmente interessante è quanto sta avvenendo in quest’area dove c’è un discreto ritorno alla coltivazione della terra soprattutto da parte dei giovani. Ne sono testimonianza le piccole aziende agricole, spesso a conduzione familiare, che qua e là stanno nascendo ed affermandosi anche oltre i confini nazionali. Nella zona di Travale, per esempio, è nata la Tenuta omonima, gestita da Raffaella Ciardullo e dal marito Nicola Piluso, che produce ottimo Nerello Mascalese e Nerello Cappuccio storicamente conosciuti come vitigni autoctoni siciliani, ma in realtà originari proprio del territorio calabrese, quali cugini dell’altrettanto autoctono gaglioppo. La proprietà conta due soli ettari, posizionati su due opposti versanti, di pari estensione, in parte terrazzati come si conviene ad un nuovo impianto che miri a rispettare il territorio e l'equilibrio idrogeologico della vigna.
La Tenuta, baciata dal sole e accarezzata dai venti della Sila, produce due soli vini, l'Eleuteria (dal greco ”libertà”) ed "Esmen Tetra", che mirano a rappresentare storia, presente e futuro della viticoltura di questo areale e ad essere un riferimento per l'intera regione in termini di qualità. In questa ricchezza vegetativa ancora oggi prosperano anche numerose piante di rovi da cui il borgo, appunto, trarrebbe il suo nome.
Secondo alcuni studiosi il primo agglomerato umano sorse probabilmente intorno ai primi villaggi presilani fondati dai romani già nel 193 a.C., per utilizzare i tronchi dei pini della Sila che, trasportati fino al mare attraverso il fiume Crati, dovevano servire alla costruzione delle navi dell’impero.
Tali villaggi, tra l’altro, erano in una posizione ideale di media collina, lontano dalle zone umide in cui allora imperversava la malaria e più in basso rispetto alle zone rigide della Sila.
Con la caduta dell’ Impero romano la valle del Crati e la città di Cosenza vennero sottoposte a continue invasioni saracene e incursioni longobarde. Intorno all'anno 975, l'Emiro Abulcasimo attaccò una prima volta la città di Cosenza, incendiandola e lasciandola bruciare per diversi giorni, mentre i cosentini trovarono rifugio sulle montagne attorno. La stessa cosa accadde dieci anni dopo, ma questa volta i cosentini, terrorizzati della ferocia dell'emiro, si stabilirono definitivamente sulle colline che circondano Cosenza.
Nacquero così i Casali cosentini, distinti in casali del Manco e casali del Destro. Secondo altri studiosi le origini di Rovito sarebbero molto anteriori e andrebbero fatte risalire alla rivolta dei Bruzi nei confronti dei Lucani nel 356 a.C. La conferma di ciò starebbe nel fatto che la nascita della chiesa matrice di Santa Barbara sarebbe fatta risalire al II o III secolo a.C., per il fatto che sia sorta su una necropoli romana di quel periodo. Fra i Casali di Cosenza, e precisamente fra quelli del manco, si sono sempre annoverati gli abitati di Rovito suddiviso dal 1579 in Rovito soprano e Rovito sottano e ricostituito in un unico abitato alla fine della prima metà del Settecento, insieme a Motta e Flavetto aggregati alla bagliva che acquisiva il nome da Rovito.
Tra il 1000 e il 1100 la famiglia normanna degli Altavilla, guidata da Roberto detto il Guiscardo, e dal fratello Ruggero I, conquistò la Calabria e l’intera Italia Meridionale. Con Ruggero II il territorio cosentino fu suddiviso in 21 Baglive.
La Bagliva o Baliva (da Balivo pubblico ufficiale con autorità su di un determinato territorio) costituiva l'esazione di diritti da parte delle Autorità pubblica preposte per applicazione di bolli alle bilance, alle stadere e alle caraffe, in base alle unità di misura usate nel luogo. Con Bagliva si intendeva anche una circoscrizione territoriale, e sotto alcuni aspetti, anche amministrativa, che racchiudeva nel suo perimetro due o più Casali contermini, e assumeva il nome del casale principale. Delle Baglive facevano parte i Casali, cioè 82 tra villaggi e paesi. I cosiddetti Casali del Manco erano quelli che sorgevano alla sinistra del fiume Crati, se si guardava verso Sud, posti a "manchìa", cioè in una parte più fresca o illuminata per meno tempo dal Sole. Queste Baglive godettero sempre di particolari privilegi, anche fiscali, occupando un territorio demaniale con “Casali Regi”, cioè senza feudatario, soggetti esclusivamente al re, sui quali la popolazione poteva esercitare gli usi civici, cioè poteva servirsene per sostentarsi. Ciò almeno sulla carta, poiché diversi feudatari limitrofi e ricchi privati, grazie anche a funzionari corrotti, costituirono "difese private". Quando Enrico VI, figlio di Federico I, detto il “Barbarossa” sposò Costanza d’Altavilla, tutti i possedimenti passarono agli Svevi, anche se per un breve periodo. I casalesi allora, stanchi dei soprusi, nel 1196, inviarono presso la corte di Palermo, allora capitale, l'abate Gioacchino da Fiore, per ottenere il riconoscimento dei diritti acquisiti, così il re, grazie all'intercessione della moglie, riconobbe nuovamente gli usi civici. La giurisdizione complessiva continuò comunque ad appartenere alla nobile famiglia dei Sambiase, diramazione di quella dei Sanseverino. In quel tempo c'era anche l' "Universitas Casalium", che era un ente per la gestione dei territori della Sila.
Ogni Casale aveva il suo "Parlamento", che eleggeva il "Mastrogiurato", i giudici che collaboravano col Baglivo, nonché i rappresentanti da inviare al Consiglio dell'Università che si riuniva nella Chiesa Madre di Cosenza. Il Parlamento del casale si riuniva invece al suono della campana o nella propria chiesa principale o sul sagrato della stessa. Diverse vicende portarono alla lunga dominazione della dinastia francese degli Angioini, che posero la capitale del Regno a Napoli e alla successiva conquista degli Aragonesi di Spagna. Passarono gli anni e dalla dominazione aragonese, per un incrocio di dinastie, si passò, intorno al 1500, alla dominazione degli Asburgo. In quegli anni nacque nella frazione di Flavetto, una scuola di Umanesimo, istituita da Nicolò Salerno, uno dei migliori figli di Rovito che fu tra i fondatori dell’Accademia Cosentina.
Nel 1596 il vicerè d'Olivares tentò di vendere i Casali per recuperare denaro.
Le popolazioni casaline, però, si ribellarono, e, offrendo al re 40.000 ducati, ottennero di rimanere per sempre nel regio demanio. Nel 1631 fece un nuovo tentativo il vicerè De Riviera, duca d'Alcalà. Questa volta i ducati sborsati furono 50.000.
Il terremoto del 1638 complicò le cose e così, nel 1644, i Casali furono ceduti al Granduca di Toscana, che insediò un governatore a Celico. Nel 1647, però, tutti i Casali, esasperati dalla pressione fiscale, si ribellarono e riconquistarono la propria autonomia.
Pare ci fossero stati all'epoca anche contatti con Masaniello, che lo stesso anno organizzò la rivolta a Napoli. Capeggiati da Isidoro Guzzolino di Flavetto, tutti i Casali si riunirono a Pianette, altra frazione di Rovito.
Quattrocento uomini armati di picche, vanghe e bastoni partirono da quì per raggiungere Celico ed assaltare il palazzo del governatore. La rivolta terminò con la vittoria dei Casali, che ritornarono, al territorio di Cosenza, mentre il Granduca fu costretto a fare ritorno in Toscana.
Successiva a questi avvenimenti fortunati, perché privi di spargimenti di sangue, fu un’epidemia di peste (1656), che colpi, soprattutto, la frazione di Motta. Circa un secolo più tardi, nel 1753, sulla serenità di questo borgo gravò lo spettro della carestia: Rovito fra tutti i paesi che circondano Cosenza, fu quello che più di tutti patì la scarsità di cibo. A partire dal 1734, intanto, si era insediata la dinastia dei Borbone di Spagna, di origine comunque francese.
Nel libro: “Rovito nel catasto onciario-un’«istantanea» del 1743”, lo studioso rovitese Mario Perfetti, che da anni si dedica alla riscoperta della storia di Cosenza e della Presila, presenta uno “spaccato” della società rovitese per come emerge attraverso il primo censimento della popolazione e dell’economia. A quel tempo la popolazione si divideva in tre classi sociali: la prima era quella “dei migliori,” “delli principali,” “delli fagultosi” che riceveva il trattamento di signore, magnifico, don, signor don, magnifico don; la seconda veniva indicata come quella “delli mediocri”, “di mezzo”; ed infine la terza come quella “inferiore”, “infima”, “delli poveri”.
La prima classe faceva uso di armi gentilizie. Di essa facevano parte gli Arnedos, gli Arnone (ramo primogenito), gli Arnone (ramo secondogenito) i Candela o Candelise, i Cozzolino o Guzzolini “, i Falvo, i Greco, i Palazzo, i Perfetti, i Pignataro, i Rossi, gli Scarpelli e gli Spadafora.
L’abitazione rappresentava l’emblema dello status economico e sociale delle famiglie. Quelle dei rovitesi erano di tre tipi: la Casa Grande o palazzo, costruita su più piani, il cui pian terreno era destinato a stalle o magazzini; la Casa Palazziata, che si sviluppava su due piani. Il piano terra era destinato a ricovero degli animali o degli attrezzi necessari all’attività dei proprietari. Il basso astrago con tavolato detto anche vasciu, infine, era l’alloggio delle famiglie più povere e fungeva da abitazione, luogo di lavoro e ricovero per gli animali.
Era privo di camino e il fuoco per riscaldarsi veniva spesso acceso direttamente sul pavimento o su quattro pietre. Molto usato, da chi ne aveva la possibilità, era il braciere alimentato da carboni.
Nel corso del XVIII e XIX secolo vigeva la legge del maggiorasco, per effetto della quale alle figlie femmine che si sposavano veniva dato il corredo chiamato “liettu” e una dote in denaro, detto “U cuntientu”con cui si dichiaravano soddisfatte e rinunciavano a qualsiasi altra pretesa sul patrimonio familiare. Al primo figlio maschio venivano assegnati terreni e fabbricati, mentre agli altri figli maschi non rimaneva altro che dedicarsi alla vita religiosa o militare o rimanere in famiglia e lavorare ricevendo vitto, alloggio e qualche soldo per soddisfare qualche esigenza personale.
Dal 1805 al 1815 la Calabria fu sottoposta al dominio Napoleonico. Durante l’occupazione francese (1806-1814), i rovitesi si schierarono contro le truppe straniere che gli tributarono l’appellativo di: “brigands”. I Francesi, in ogni modo, portarono la modernità: vennero istituiti tribunali e provincie (la nostra venne detta Calabria Citra), redatti codici normativi, riformati gli apparati statali, aboliti i privilegi feudali, confiscata la cosiddetta manomorta (i beni civili ed ecclesiastici non tassabili), istituita l’imposta fondiaria, che tassava tutti i terreni e sostituiva le antiche e ingiuste tasse; vennero presi anche provvedimenti vari, come il divieto di seppellire i defunti all'interno delle Chiese; ascese la borghesia, che diede successivamente impulso ai moti risorgimentali. I Borbone, ritornati, mantennero gran parte delle riforme francesi, ma i tempi stavano cambiando e ben presto arrivò il “Risorgimento”.
Dopo lo sbarco di Garibaldi in Calabria che avanzò la promessa che poi non mantenne di concedere la terra ai contadini e l’ingloriosa resa dei generali prezzolati dell’esercito borbonico, anche Rovito dichiarò l’annessione al Regno di Savoia, ma le condizioni anzicchè migliorare, peggiorarono. Chiusero le nostre fabbriche. I nostri porti e i nostri prodotti migliori furono sostituiti da quelli del nord. Ai vecchi padroni si sostituirono i nuovi. La nostra manodopera più qualificata cominciò a partire per l’America del Sud. Emigrarono i nostri migliori sarti, falegnami, muratori, costruttori, orologiai. Molti giovani si arruolarono nell’esercito e non pochi diventarono soldati mercenari. In tutto il Mezzogiorno e in Calabria rimasero solo donne, bambini e vecchi, perlopiù tutti contadini.