Il convento della Riforma, affidato in un primo momento ai Frati Minori Riformati di Sant’Antonio da Padova dipendeva gerarchicamente dal Maggior Convento Antoniano di Pietrafitta. Poi, nel 1631, la gestione fu affidata ai frati minori Riformati seguaci delle regola di San Francesco d’Assisi che, qualche anno dopo, nel 1650, vi istituirono il banco frumentario e il banco dei pegni per venire incontro alle necessità delle famiglie più povere e perlopiù contadine.
Nel 1808 il convento fu soppresso da Gioacchino Murat e nel 1816 riaperto, per essere nuovamente soppresso dieci anni dopo.
Nel 1864 divenne per un breve periodo sede della casa comunale.
Dal 1942 al 1963 fu affidato alle Suore Minime della Passione di Nostro Signore Gesù Cristo, fondate da Suor Elena Aiello di Montalto Uffugo ('A Monaca Santa) che lo adibirono ad asilo e laboratorio di ricamo e cucito.
Molto apprezzata fu, negli anni, l’opera dei frati che ogni giorno facevano la questua in tutta la Valle del Crati per dar da mangiare a quanti (poveri, affamati o pellegrini) si presentavano alla porta del convento per ricevere una ciotola di cucinato che spesso conteneva zuppa di ceci o di fagioli.
Sempre a tale scopo i frati distribuivano ad ogni famiglia di fedeli due piccoli orci vuoti detti pignatielli.
Uno ritornava al convento pieno, per esempio, di scarafuogli (cicoli), strutto, gelatina, sanguinaccio o frittole, l’altro rimaneva al benefattore.
Il convento è a forma di rettangolo con due accessi: uno pubblico, vicino al portale della Chiesa, l’altro privato, che dava in un bell’orto in cui erano piantati alberi da frutto e querce.
Nel punto più distante del convento c’era una grotta che doveva servire ai frati come luogo di meditazione, pentimento e autofustigazione. Dall’interno della grotta scorreva una vena d’acqua, sfruttata per uso alimentare e per irrogare la terra.
L’acqua in eccedenza veniva raccolta in due capienti vasche dette “cibbie”. Dal piano terra si accedeva al primo piano tramite due scale: una era di uso generale, l’altra portava anche in sagrestia.
Il refettorio, ampio e rettangolare, era posto accanto alla cucina, che era dotata di un ampio focolare privo di canna fumaria.
Nel magazzino delle provviste trovavano posto i salumi appesi, olio, vino, miele, aceto, prodotti sotto olio, sotto aceto e sotto sale, grano, patate, fichi secchi, noci, castagni ed erbe aromatiche secche. Al piano superiore erano poste le celle dei frati (per ogni frate, una cella).
Quando essi morivano venivano seppelliti nella nuda terra senza alcun segno di riconoscimento, a voler significare che davanti alla morte tutti gli uomini sono uguali. Una croce semplice e scarna di ghisa sormontava una colonna posta all’ingresso di questo camposanto. La vita in convento era scandita dai tocchi delle campane.
Un tocco all’alba indicava l’orario della sveglia e l’inizio della giornata. Un altro tocco verso le 9 segnava l’ora della preghiera per i monaci e la prima colazione per i contadini che di solito era a base di patate, verdure (peperoni, melanzane, ecc.), cotiche di maiale e formaggio.
Un tocco di campana a mezzogiorno indicava l’ora del pranzo, una verso le quattro del pomeriggio invitava alla recita dei vespri e l’ultimo, al calar del sole, indicava il termine della giornata lavorativa, ossia “l’Ave Maria”.
Era buona abitudine, sia per laici che per i religiosi, togliersi il berretto e farsi il segno della croce ad ogni tocco di campana. Per la realizzazione delle campana maggiore si racconta che occorsero diversi quintali di bronzo. Su di essa, all’esterno, sono disegnate alcune figure messianiche mentre alla base, oltre alla merlettatura, è stato riportato in rilievo il nome del fonditore, Giovanni Conforti da Rogliano che si era trasferito a Flavetto dopo aver sposato la nobile Valeria Spadafora, originaria del luogo, trasferendovi anche l’attività per la quale era noto in tutta la regione.
Purtroppo la campana maggiore attualmente è muta dopo essere stata colpita da un sasso lanciato con una fionda. Funzionano, invece le altre tre che non portano alcuna iscrizione o disegno.
“In Rovito come in tutti i Casali di Cosenza -scriveva Vincenzo Padula in “Calabria prima e dopo l’Unità”- si dava grande importanza alle campane. Quando altri muore, tre o quattro contadini barbuti e col cappotto vanno al campanile. Hanno per complimento un progiutto e un barile di vino e suonano. Ripigliano a mezzanotte e suonano fino al mezzodì successivo”.
Se veniva a mancare il vino o il prosciutto smettevano prima. Di notte, almeno per due volte a notte, i frati venivano svegliati dal trillo di una campanella posta nel corridoio delle celle che li invitava ad andare a pregare in cappella.
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